Emilio Salgari – le Aquile della Steppa
Ediz: Donath 1907
Parte Prima – Capitolo II – La tenda del “beg”
La luce si era spenta sull’immensa steppa, che si estende sempre piana e coperta di sole erbe e che d’estate il sole bruciante dissecca e che i freddi invernali fanno rivivere rigogliose, dalle rive orientali del mar Caspio a quelle occidentali del mar d’Aral.
La notte non prometteva di essere buona. Era oscurissima, senza luna e senza stelle, essendosi il cielo tutto coperto di vapori e piuttosto fredda, poichè verso l’autunno cominciano già le forti brinate su quelle pianure, che durante l’estate invece pare che avvampino. Un vento tagliente e secco, che soffiava dal Caspio, passava di quando in quando, con mille sussurrii, curvando le alte erbe e facendo oscillare l’alta tenda di Giah Agha, malgrado la grossa pietra che era stata appesa alla cinghia centrale, onde darle maggiore stabilità.
I turcomanni, quei terribili nomadi che hanno dato sovente tanto filo da torcere ai russi, ai persiani, ai belucistani e anche agli afgani, sono già famosi nelle costruzioni delle loro tende, le quali possono benissimo resistere anche ai venti più impetuosi, che si scatenano sovente su quelle lande sterminate.
Dànno ad esse una forma tutta speciale, che non ha nulla di comune con quelle degli arabi e tanto meno coi wigwam delle pelli rosse dell’America del nord.
Sembrano cupole, ma molto alte, e nella loro costruzione non adoperano che pertiche molto elastiche, piantate profondamente nel suolo, curvate in alto e quindi legate saldamente ad un cerchio e coperte di feltro, assai spesso, impenetrabile alla pioggia e di colore per lo più assai oscuro.
Ordinariamente non hanno proporzioni molto vaste. Quella però del vecchio Giah Agha, era invece assai alta, ampia alla base e coperta d’un doppio strato di feltro.
Anche l’interno indicava come quel vecchio fosse ben qualche cosa di più d’un semplice allevatore di cammelli o di cavalli.
Il terreno, sgombrato prima dalle erbe, era coperto da un tappeto persiano a tinte bellissime ed a disegni svariati; all’intorno vi erano dei grandi cuscini di seta rossa con ricami d’argento e alti cofani di cedro del Libano, con armature d’acciaio; appese alle pertiche si vedevano delle armi degne d’un principe, come archibugi dalla canna lunghissima e finamente arabescata ed i calci con intarsi di madreperla e placche d’argento; kangiarri di finissimo acciaio, colle impugnature adorne di turchesi, pure colla canna molto lunga con qualche versetto del Corano incisovi sopra.
In un angolo, su bastoni, quattro bellissimi falchi, colla testa chiusa in un cappuccio di cuoio e le zampe trattenute da una lunga catenella d’argento, squittivano sommessamente ogni volta che la grossa pietra, sospesa alla correggia, dondolava, imprimendo alla tenda un violento rollìo.
Giah Agha, sdraiato su un soffice cuscino, colla testa appoggiata ad una pertica della tenda, fumava placidamente, guardando distrattamente i falchi e prestando orecchio ai sussurrii del vento.
Il suo narghilè, di vero cristallo, con dorature all’intorno, gettava di quando in quando, con lentezza misurata, dalla pipa sovrastante, nuvolette di fumo impregnate d’un acuto odor di rosa, che si confondevano con quelle che escivano dalle labbra del fumatore.
Aveva già quasi terminato tutto il tabacco contenuto nel camino, e l’acqua racchiusa nel narghilè cominciava a gorgogliare, quando ad un tratto, nel momento in cui una raffica violenta faceva oscillare con maggior forza la tenda, il beg fece un gesto d’impazienza:
— Che sia toccata qualche sventura a quel bravo Hossein? — disse. — E Abei Dullah? — si chiese, poi. — Dove si sarà fermata la carovana? Siamo alla vigilia degli sponsali e hanno le armi da pulire ed i cavalli da preparare per la gran corsa. —
Quasi per confermare i suoi sospetti, nel medesimo istante si udì a rombare nella tenebrosa pianura un colpo di fucile, che si ripercosse lungamente entro la tenda.
Il vecchio lasciò cadere la lunga cannuccia di pelle del narghilè e si alzò a sedere, chiamando ripetutamente:
— Tabriz! —
Un uomo subito entrò, facendo un leggero inchino. Era un turcomanno d’aspetto brigantesco, di statura erculea, con una gran barba rossiccia ed ispida e due occhi grifagni.
Indossava il costume delle basse classi: cappello villoso che aveva la forma d’una pina, zimarra di feltro grossolano, con una larga cintura di pelle, entro cui erano passati due kangiarri dalle lame ricurve e alti stivali di pelle nera, terminanti in una punta molto rialzata.
— Che cosa vuoi, beg? — chiese il gigante.
— Hai udito?
— Sì, beg1.
— Che sia stato Hossein a far fuoco?
— È il suo archibugio che ha sparato, padrone, — rispose Tabriz. — Distinguerei quel colpo fra mille.
— Su chi avrà fatto fuoco? — chiese il vecchio con ansietà.
— Non inquietarti, beg; tuo nipote è l’uomo più coraggioso che esista in tutta la steppa ed io dormirei tranquillo, anche se lo sapessi insidiato da venti uomini.
— Prima di partire egli mi ha parlato delle Aquile della steppa e tu sai, che quando sbucano dai deserti dell’Aral, non sono mai in poche. —
Il gigante alzò le spalle.
— Hossein, se ne ride di costoro. E poi chi non conosce nella steppa Giah Agha? Chi oserebbe assalire i suoi nipoti? Sanno bene quei banditi che quantunque tu sia vecchio, hai ancora la mano lesta e che la tua tribù conta guerrieri valorosi.
Forse che l’anno scorso non hai fatto acciecare dieci barbe bianche2, che avevano guidato una partita di Aquile contro una tua carovana? La lezione sarà bastata, padrone.
— Ascolta, Tabriz.
— Non odo altro che il vento a sussurrare fra le erbe, — rispose il turcomanno.
— Ha con sè i cani, Hossein?
— Sì, beg.
— Non li odi ad abbaiare?
— Non ancora.
— Eppure non sono tranquillo.
— Vuoi che salga a cavallo e che vada incontro a tuo nipote?
— Non vi è bisogno, mio bravo Tabriz, — disse in quel momento una voce sonora.
— Eccomi, padre: come vedi, ritorno intero. —
Un giovane era improvvisamente comparso sulla porta della tenda, che era rimasta sollevata.
Il nuovo venuto poteva avere vent’anni. Era un bellissimo tipo che s’avvicinava più a quello maschio e perfetto dei vicini persiani, piuttosto che a quello angoloso e ruvido dei turchestani.
La sua statura era alta e slanciata, ma pure vigorosissima, molto superiore a quella ordinaria dei turchestani e dei tartari; il suo viso bellissimo, con occhi molto neri, vividi, sormontati da folte sopracciglia, così nere che pareva fossero state tinte coll’antimonio, con una bella bocca che una fanciulla gli avrebbe invidiato, ombreggiata da due baffetti castani che terminavano in due punte ardite.
Su quel viso si leggeva la franchezza e l’audacia; nelle sue membra si indovinava una forza più che comune.
Se, come abbiamo detto, rassomigliava nei tratti del viso più ai persiani, che sono i più belli uomini dell’Asia, che ai turchestani, indossava pure un costume che ricordava quello dei grandi signori d’Ispahan o di Teheran.
Invece della lunga zimarra turcomanna, indossava una giubba piuttosto corta, con larghi bordi dorati, aperta sul dinanzi in modo da mostrare la bianca camicia di seta, che ricadeva su una larga fascia di seta rossa; calzoni larghi, alla turca, che scendevano fino alle ginocchia; alti stivali con molte pieghe, di marocchino giallo, simili a quelli usati dagli usbechi.
Sul capo, invece del turbante, portava quella specie di kolbak villoso dei tartari indipendenti, con un piccolo pennacchio.
— Eri inquieto, padre? — chiese il giovane, levandosi il fucile dalla canna lunghissima, che teneva sospeso attraverso il dorso e togliendosi dalla cintola una specie di jatagan un po’ ricurvo, chiuso in una guaina di pelle rossa adorna di laminette d’oro.
— Sei stato tu a far fuoco, figlio mio? — chiese il vecchio, la cui fronte si era subito rasserenata.
– Sì, ho sparato a cinquecento metri dalla tenda, — rispose il giovane.
— Contro chi?
— Mi pareva di aver veduto un’ombra umana scivolare fra le erbe e, temendo che cercasse d’accostarsi a me per assassinarmi a tradimento, ho sparato per farle comprendere che io stavo in guardia, e che non era uomo da lasciare la mia pelle nella steppa.
— L’hai ucciso?
— Non lo so, ma fra poco i cani saranno qui e se è veramente caduto, porteranno qualche cosa dei suoi indumenti. To’! Eccoli che giungono! —
Due cani si erano slanciati in quel momento entro la tenda, abbaiando festosamente intorno al giovane.
Uno era una specie di levriero che i turcomanni chiamano tazé, grosso, alto, di taglia pesante, con mascelle formidabili e capace di lottare contro una fiera; l’altro invece era un gurdios, una specie di bassotto, cogli orecchi a punta, razza molto adatta ad ogni specie di caccia, soprattutto a quella della volpe, che quei cani inseguono con ostinazione straordinaria, per giorni e notti intere.
Hossein guardò il grande levriero e s’avvide che non teneva nulla fra le possenti mascelle e che il muso non era lordo di sangue.
— Possibile che io abbia mancato quell’uomo! — esclamò. Eppure vi sono ben pochi nella steppa che adoperino l’archibugio come me.
— Tu devi aver fatto fuoco su un’ombra, — disse il vecchio sorridendo. — E poi le hai vedute tu le Aquile della steppa?
— No, padre, — rispose il giovane che lo chiamava ordinariamente con quel dolce nome. — Uno dei nostri cammellieri mi ha detto però, che ieri mattina alcuni pastori lo avevano avvertito di tenere gli occhi bene aperti, perchè avevano veduto passare la notte innanzi, parecchi cavalieri sospetti.
Il vecchio beg scrollò le spalle, poi disse:
— Nessun oserà assalire noi, nipote. Non occupiamoci che del tuo matrimonio.
— Domani mattina devi presentarti alla tua fidanzata coi tuoi più begli abiti e le tue più belle armi. —
Il viso del bel giovane si illuminò d’una intensa gioia.
– Sospiro l’istante di rivederla e di farla mia, quella fanciulla. Sono tre mesi che io non la rivedo più.
— L’ami intensamente?
— Più della mia vita, padre. Io credo che nessuno sarà più felice di me in tutta la steppa.
— Ed hai ragione, Hossein. Se tu sei il più bel giovane che si possa trovare fra l’Aral ed il Caspio, essa è la più splendida creatura che Allah abbia creata. —
Hossein parve che seguisse cogli occhi socchiusi una visione che gli danzava dinanzi, poi, scuotendosi bruscamente, disse:
— Tabriz, le mie armi. Voglio che siano così lucenti da abbagliare i dolci occhi della mia bella Talmà. —
Il gigantesco turcomanno, che fino allora erasi tenuto presso l’apertura che funzionava da porta, guardando con una specie d’adorazione il giovane, s’accostò ad un grosso cofano, cerchiato di ferro e trasse due splendidi kangiarri, che avevano le impugnature d’argento finamente cesellate e adorne di turchesi e di smeraldi, poi due pistole coi calci intarsiati di placche d’oro e una sciabola di Damasco, sulla cui lama erano incisi tre versetti del Corano.
Hossein prese un pezzo di feltro e, sedutosi su un cuscino, si mise a strofinare vigorosamente le lame. Il vecchio intanto aveva ripreso il cannello del suo narghilè e si era rimesso a fumare, con lentezza quasi studiata, seguendo attentamente tutte le mosse del giovane, con visibile compiacenza.
Tabriz, seduto presso la porta, fra i due cani che gli si erano accovacciati ai fianchi, scrutava attentamente la tenebrosa pianura spingendo lontano gli sguardi.
Per parecchi minuti nella tenda regnò un profondo silenzio, rotto solo dallo scricchiolìo delle pertiche; poi il vecchio, staccando dalle labbra il bocchino d’ambra, disse, volgendosi verso Hossein, che era tutto occupato a lucidare le sue armi:
— Che la carovana non ci raggiunga prima dell’alba?
— Io non lo credo, padre, — rispose il giovane. — I cammelli erano troppo sfiniti e anche i cavalli, eccettuato quello di mio cugino, non si trovavano in miglior stato.
— Perchè Abei non è venuto anche lui con noi? Stava meglio qui che accampato nella steppa. La carovana ha uomini sufficienti per difendersi. —
Il giovane depose il cangiarro che stava lucidando, si alzò in piedi e, guardando fisso il vecchio, gli disse:
— Non ti sembra padre che da qualche tempo mio cugino abbia cambiato umore?
— È vero, — rispose il beg, dopo un momento di riflessione.
— Ho notato che è diventato eccessivamente freddo e molto avaro di parole.
Forse egli pensa troppo sovente alla sua bellissima cugina. Abbia pazienza: appena compirà i vent’anni, gli daremo la fanciulla che ama. Tu sulle rive dell’Aral; lui su quelle del Caspio: io nella steppa. Uniremo i due mari e la gran pianura coi nostri cuori. —
Hossein lo lasciò parlare, quando però ebbe finito, gli disse:
— L’ama! T’inganni padre! Egli la detesta e sai il perchè? —
Il vecchio beg fece un gesto di stupore.
— Perchè gli dissero che la figlia del Khan dei Tadjicki, non avrebbe accettato che la mano d’un uomo….
— Continua, — disse il vecchio, vedendo il giovane fermarsi esitante.
— Che si chiamasse Hossein beg.
— Tu!
— Così si dice.
— Io l’ho destinata a tuo cugino! — gridò il vecchio, aggrottando la fronte.
— Hossein-beg non ama che la bella Talmà, — soggiunse il giovane. — Il suo cuore non batte che per la più bella fanciulla dei Sarti. Che cosa puoi temere da me, padre? Tu sai che io sono leale. —
La fronte del beg subito si rasserenò.
— Sì, — disse, — tu sei troppo leale per ingannare tuo cugino. Siete cresciuti insieme, i vostri padri che caddero entrambi valorosamente innanzi alle falangi del Khan di Bukara, erano fratelli e avete nelle vostre vene il medesimo sangue.
Io vi ho adottati come se foste carne della mia carne e vi amo più che foste miei figli, e le mie ricchezze un giorno saranno vostre, ma guai a voi se sorgesse una rivalità. Il vecchio beg, l’antico guerriero delle rive del Caspio, che ha fatto tremare perfino i russi, sarebbe inesorabile.
— Sono leale, — ripetè Hossein — e non amo che te e Talmà. —
In quell’istante Tabriz si alzò rapidamente, trattenendo i cani che mugolavano e che parevano pronti a lanciarsi nella steppa.
— Che cos’hai? — chiese il beg che si era subito accorto di quella mossa improvvisa.
— È il vento che sussurra o sono veramente i dolci suoni della guzla, quelli che giungono ai miei orecchi? Chi può essere l’uomo che con una simile notte si diverte a provare la chitarra in mezzo alla steppa?
Aveva pronunciate appena quelle parole, quando il grosso levriero mandò un forte latrato.
— Odo anche il galoppo d’un cavallo, — disse Tabriz. — Che sia qualcuno della carovana? —
Hossein prese, senza parlare, il suo lungo fucile che aveva deposto su un cofano e l’armò.
— Che cosa fai? — chiese il beg.
— Può essere un’Aquila della steppa, padre, — rispose il giovane, raggiungendo Tabriz, che cercava di discernere qualche cosa fra quella cupa tenebra.
— Sì, è un cavallo, — disse il gigantesco turcomanno, — e mi pare che il galoppo provenga da occidente. Guarda, padrone, lo vedi? —
Sulla cupa linea dell’orizzonte che un lieve bagliore prodotto da qualche lampo lontanissimo di quando in quando rischiarava, si scorse un cavaliere che giungeva a corsa sfrenata.
— Chi vive? — gridò Hossein puntando il fucile.
Una voce che il vento portava rispose subito:
— Abei Dullah.
— Mio cugino! — esclamò Hossein. — Perchè ha abbandonato la carovana che porta i regali di nozze per Talmà? Che le Aquile della steppa l’abbiano assalita? —
Il cavaliere che s’avanzava velocissimo, facendo fare al suo destriero dei salti straordinari, per evitare le spaccature del suolo, in pochi momenti giunse presso la tenda, poi, da abilissimo cavallerizzo, con un salto fu a terra.
— Buona ventura, Hossein, — disse, — mentre Tabriz arrestava il cavallo. — Nostro padre veglia ancora?
— Non si dorme alla vigilia d’un matrimonio, — rispose Hossein. — E poi io devo preparare le mie armi.